L’immagine realizzata dal fotografo tedesco con l’intelligenza artificiale ha vinto il premio – rifiutato dall’autore – della categoria Creative del concorso Open dei Sony World Photography Awards aprendo un dibattito nel mondo artistico
Negli ultimi giorni il suo nome compare su migliaia di siti di tutto il mondo associato al termine “I.A.”, espressione di cui, a quanto pare, oggi, non si possa fare a meno di parlare. Nonostante si tratti di un tema affrontato da molti anni nei modi più diversi, a partire dal computer Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio, ciclicamente la spinosa questione pare ripresentarsi come se ogni volta non si sia potuto fare tesoro delle elaborazioni precedenti. Se si compie un viaggio a ritroso passando per Her, Metropolis, l’Olimpia de Il mago della sabbia di Hoffman, gli automi ottocenteschi, si finisce al Golem o chissà, a figlie di creature divine nate da costole, teste o altre parti del corpo.
Sembra proprio che di Roy, Leon, Pris e Rachel, i fantastici replicanti di Blade Runner, capolavoro di Ridley Scott, non ci sia memoria. Eppure Rachel ci aveva mostrato come fosse molto più umana rispetto al detective che le insinuava il dubbio di non esserlo dicendole che le foto di lei da piccola sotto la veranda con la madre non fossero suoi ricordi ma innesti. (Ed è proprio quest’ultima parola che meriterebbe degli approfondimenti che potremmo riprendere in un prossimo lavoro).
Non è un caso se del film che ha segnato un’epoca citiamo proprio quel momento, perché la fotografia con cui Boris Eldagsen ha vinto il prestigioso Sony Award e che ha poi rifiutato, mostra proprio qualcosa di fortemente legato al nostro immaginario: una madre e una figlia vicine, in piedi, una dietro l’altra con aria sospesa, forse esitante, addirittura un po’ assente.
Una visione che in un batter d’occhio porta ad una delle famose foto di Anna di Prospero, vincitrice tra l’altro molti anni prima del medesimo premio: l’autrice e sua madre una dietro l’altra vicino ad una finestra, con la madre che le tappa gli occhi. Ma volendo andare ben più indietro l’opera di Eldagsen chiama certe pitture surrealiste permeate di chiari riferimenti psicoanalitici, con rimandi cromatici e di stile di una certa fotografia romantica della seconda metà dell‘800.
Ma sentendo le parole del suo autore già abbiamo compiuto un errore chiamandola “fotografia”, in quanto egli stesso ha dichiarato che questa immagine era stata generata da un programma di I.A., pertanto non era definibile come una fotografia e per questa ragione non era giusto ammetterla al premio nella medesima categoria. Eldagsen ha voluto proporsi come scimmietta da esperimento per permettere al dibattito di essere approfondito. La faccenda non è semplice e siamo certi che se ne parlerà per lungo tempo.
Prima di proseguire è bene però ricordarci cosa significhi I.A.: “È una disciplina che studia se e in che modo si possano realizzare sistemi informatici intelligenti in grado di simulare la capacità e il comportamento del pensiero umano”.
Sono ormai molti mesi che si sta parlando di questo tema dell’I. A. e a quanto pare sembra inevitabile nella cultura occidentale che ogni qual volta si creino nuove tecnologie che ne contaminano altre, ci siano delle crisi profonde in chi affronta il passaggio con difficoltà.
Ciò che per noi è ad esempio una pratica normale di uso quotidiano come la fotografia, quando fu inventata nel 1839 non ebbe certo vita facile, e fu definita “La palestra dei pittori mancati”. Molti intellettuali gridarono con il timore che avrebbe soppiantato la pittura, permettendo a cani e porci di creare con facilità nuove immagini. Indimenticabile in tal senso anche il primo slogan della Kodak del 1898 che diceva di una fotocamera di legno, con fuoco fisso e un solo tempo di scatto: “You press the botto we do the rest”; ci chiediamo ancora cosa fosse questo “rest” che la macchina da sola avrebbe fatto.
Oppure ancora possiamo ricordare le parole di Gauguin che disse: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita… Sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”. Oggi possiamo dire con un buon margine di certezza che si era sbagliato. Ma di esempi del genere ne abbiamo a centinaia in ogni ambito. Per tentare di approfondire meglio la faccenda siamo andati a cercare proprio il fotografo tedesco che oggi è tampinato dai giornali di tutto il mondo, al quale abbiamo potuto porre otto domande.
Prima di entrare nel merito del premio che hai vinto e rifiutato, vorremmo fare un passo indietro per provare a ricostruire un po’ il tuo percorso personale. Quando hai iniziato a praticare la fotografia?
Ho iniziato da ragazzo, nella metà degli anni ‘80, ma ho cominciato seriamente a praticarla nel ‘89, quando avevo diciannove anni, chiedendo agli amici di posare per me; andando in certi posti e costruendo fotografie.
Quali sono stati gli artisti che più ti hanno fatto innamorare e dei quali sei in qualche modo debitore?
Potrei rispondere cronologicamente ma lo faremo in un altro modo. Gli artisti di cui mi sono innamorato hanno tutti qualcosa in comune, ed è un approccio psicologico, in quanto tutti affrontano qualcosa di inconscio; parlano di qualcosa che è la condizione umana e quando sei un ragazzo, ovviamente scopri e ami i surrealisti, poi sei attratto dai simbolisti e così ho iniziato a disegnare. Poi Max Klinger, Kubin. E poi ancora Bosch; e tutti quegli artisti che si sono ispirati alla luce di Rembrand. Quando ero studente ho scritto un piccolo saggio proprio sulla luce in Rembrandt. E poi fu la volta di Roger Ballen, e fu amore a prima vista.
Ricordo che a diciott’anni passai tre ore in un museo guardando un documentario su di lui che era parte della mostra, e poi fui molto felice di frequentare un workshop con lui dieci anni fa.
Mi sembrava una follia che dopo averlo tanto amato potessi frequentare un suo corso. Ho imparato tanto da lui, e lo considero come lo zio che avrei sempre voluto avere; che amo come uomo e come artista.
Ad un certo punto del tuo percorso hai iniziato a realizzare anche filmati e video, non limitandoti a un’immagine singola: puoi dirci cosa sia per te quest’altra dimensione artistica?
Quando ero studente ho iniziato ad avere idee che erano qualcosa di più di un’immagine; così realizzai che stavo pensando più come un regista teatrale o cinematografico e volevo sperimentare l’arte con quelle cose; in un certo senso era come se nei miei studi pensassi che creare solamente una singola immagine non fosse abbastanza; e c’è stato un anno in cui ho pensato che forse avrei dovuto fare teatro. Nel tempo, rispetto al lavoro fotografico che ho fatto, molte persone hanno detto che era un mix tra l’invenzione teatrale e quella cinematografica, che sono tutte al suo interno.
Perché avevo idee che avevano bisogno di basarsi su un movimento, un’idea con uno sviluppo temporale, e così ho iniziato a portare avanti le cose in parallelo fin dagli anni ‘90.
Ci avviciniamo ora ad affrontare l’argomento del premio, sperando di aggiungere qualcosa che magari non è stato ancora detto. Hai dichiarato che da fotografo questa immagine non era giusto che vincesse; perché, cos’è una fotografia a differenza di questo che hai realizzato tu?
Penso che sia solo sleale, perché sono prodotte diversamente; per ottenere una buona fotografia significa, o significava, avere dimestichezza con la tecnologia, possedere uno sguardo creativo e conoscere la composizione, la luce, la costruzione del quadro; mentre se la produci con l’A.I. non hai bisogno di conoscere nulla di tutto ciò, perché è la stessa intelligenza artificiale a conoscerli questi elementi essendo stata allenata. Si può usare il prompting come strumento di lavoro come io faccio ed insegno nei miei workshop, cosa che può diventare molto complessa, ma puoi anche digitare poche parole ed avere un’immagine che sembra una fotografia e che contiene tutte le informazioni tecnologiche in poco più di venti secondi. Io amo le immagini create con l’A.I. ma penso che dovrebbero avere una loro categoria.
La scelta di questa immagine con le due donne, forse una madre e una figlia, sembra portarci indietro di 100 anni o forse più, (addirittura ci sono in essa dei segni che sembrano dei graffi su un negativo o una lastra); è come se tu avessi coperto quasi il totale arco di tempo della fotografia, dalla sua nascita, al massimo confine tecnologico cui ci si è spinti oggi… si è trattato di una scelta consapevole per poter tentare di vincere oppure no?
Apprezzo davvero questa descrizione del lavoro. Essa era parte del primo progetto che ho realizzato con l’intelligenza artificiale la scorsa estate, chiamato Vomit. La sensazione delle immagini di Vomit era come quella che avrebbe potuto essere ai primordi della fotografia. Un mio amico esperto di eliografia, che è una tecnica molto antica di 200 anni fa, l’ha applicata all’intelligenza artificiale, ed io ho amato davvero concettualmente questo passaggio di avere questa nuova forma di creazione dell’immagine e poi di stamparla con una antica tecnica di stampa fotografica. E sappiamo che questa tecnica è destinata a sopravvivere per secoli. Quindi trovo particolarmente interessanti questi passaggi intellettuali, ma non è stata una scelta cosciente quella di provare a vincere il premio. Non ho proprio provato a vincere, volevo solo vedere cosa sarebbe successo e mi piaceva quell’immagine ed ho pensato che fosse una delle migliori che avevo realizzato. Certamente se partecipi ad un concorso usi l’immagine migliore che hai.
Possiamo dire che per realizzare un’immagine in I.A. più che un bravo fotografo sia necessario essere un bravo scrittore?
Non è questione di scrive ma di conoscere e la cosa affascinante dei generatori di I.A. è che il materiale con cui lavorano è la tua conoscenza, il tuo sapere; è l’esperienza in una certa disciplina, (come potrebbe essere la fotografia o la pittura). Io ho costruito un sistema di undici elementi che tu puoi inserire in un sistema di prompting, e otto di quegli undici elementi fanno riferimento alla tua conoscenza in fotografia, e tecnica fotografica, composizione di un’immagine, luce, colori, primo piano, piano medio, sfondo, e riferimenti. Quindi se tu sai molto di una certa disciplina e della conoscenza dell’arte sei avvantaggiato.
In tal senso le vecchie generazioni sono avvantaggiate perché hanno più conoscenza mentre se hai quindici anni cosa produrrai? Probabilmente un’immagine di Batman. Ma se hai cinquant’anni ed hai visto e imparato molto, puoi offrire diversi suggerimenti all’intelligenza artificiale. Uno scrittore deve pensare non solo come uno scrittore, ma necessita di una conoscenza in tema di creazione di immagine, è un’arte diversa. Penso che potrebbero ottenere risultati interessanti ma c’è sempre una differenza.
Puoi dirci le esatte parole che hanno generato la tua immagine che ha vinto il Sony Award?
Non posso perché è stata prodotta con più di venti passaggi e per ogni passaggio hai un nuovo suggerimento ed oltre a ciò quelli che ho usato non li mostro mai, sono come la mia formula della Coca-Cola, come la ricetta del cuoco che tiene per se.
Chiudiamo le nostre interviste con una domanda che poniamo a tutti i fotografi intervistati. Ci racconti di una foto rimasta nel cassetto, una foto mancata che non hai potuto realizzare e che è ancora dentro di te?
Amo molto questa domanda, e la risposta è assolutamente sì! Vivo a Berlino da più di venticinque anni ormai ed è nota la leggenda di Berlino negli anni ‘90, come città “wild and party”, (cosa che è ancora oggi). E la foto è questa: Era notte fonda, stavo camminando verso casa, c’era un semaforo e le auto dovevano attendere che io attraversassi la strada; c’erano due macchine, la prima era un taxi, e all’improvviso il finestrino posteriore si è abbassato ed è spuntata fuori la testa di una donna che portava una di quelle finte parrucche d’argento, come un caschetto con i capelli lunghi fino al mento, e la donna stava vomitando fuori dal finestrino del taxi. La macchina che era alle spalle, essendo notte aveva i fari accesi, la illuminava da dietro; e anche il vomito era illuminato da dietro… ho pensato che era un momento unico, ed è ancora impresso nella mia memoria. Potrei provare a farla con l’intelligenza artificiale.
Traduzione di Raffaella Sanna Passino e Francesca Rogai