Quasi per caso grazie ad Instagram durante il lockdown, o come si usa dire grazie all’algoritmo, abbiamo avuto la fortuna di intercettare il lavoro del fotografo israeliano Alexander Bronfer che vi presentiamo dopo l’incontro con l’artista giapponese Tomiyasu.
Ciò che fin da subito colpisce dello sguardo di Bronfer è la visione poetica, il passaggio ad una dimensione non realistica del mondo con infiniti rimandi all’arte di ogni epoca, dalla pittura, al cinema la letteratura. Insieme a questo la sua capacità potente di muoversi da una realtà intima ad uno sguardo ampio sul mondo mantenendo sempre una chiave estremamente riconoscibile. Tenderemmo a definire la sua visione onirica, ma dicendo questo la chiuderemmo in uno schema, per quanto possa parzialmente essere anche corretto usare questa parola. Perché forse sarebbe interessante iniziare a chiedersi cosa sia “onirico” per tutte quelle culture che non sono quella occidentale; se proviamo infatti ad associare il termine a qualcosa di visivo, andiamo subito a pensare al surrealismo, ai lavori di Dalì, Bunuel o più recentemente Fellini. Ma basta spostarsi in sud America, o in Corea, o Giappone per far saltare lo schema. Magari in futuro proveremo ad indagare ancora questo argomento con i nostri nuovi ospiti.
Proseguendo in questo affascinante viaggio, nascono ad ogni incontro nuove domande, che nel tempo poi ci sembreranno talvolta superate, oppure ancora attuali; ne condividiamo alcune con voi lettori: Nel momento in cui si usa una “lingua di mezzo” (spesso l’inglese), si è davvero sicuri di essere riusciti a dire tutto ciò che si pensava? E quale legame c’è tra la costruzione di un’immagine visiva e la nostra lingua madre?
Buona lettura.
Quando hai cominciato a fare fotografie?
Il mio primo scatto l’ho fatto in una scuola elementare. È stato tanti anni fa e solo nel 2016 ho sentito di avere qualcosa di valido da mostrare. Si trattava più di sviluppo personale che di padronanza fotografica.
Hai avuto dei maestri? Se si quali?
Amo i film di Boris Savelev, Andrey Tarkovsky e Edward Steichen. Le loro opere sono molto vicine alla mia visione fotografica.
Ho anche seguito un corso di David Allan Harvey e ovviamente amo i suoi lavori.
Guardando le tue fotografie si ha la sensazione di una forte dimensione letteraria, talvolta con rimandi alla pittura o al cinema: condividi questo pensiero e puoi raccontarci un po’ del tuo rapporto con le altre arti citate?
In molti mi dicono questa cosa. Non ho dedicato molto tempo ad analizzarla. Certamente il pittorialismo e Steichen/Stiegliz hanno avuto un forte impatto su di me e considero la fotografia più vicina ad una pura forma d’arte che ad uno strumento per documentare. In cinematografia ho studiato le opere di importanti cineasti come Gordon Willis, Alexander Knyazhinsky, Néstor Almendros, John Alonzo. Presumo che anch’essi abbiano prodotto una qualche influenza su di me.
C’è spesso una forte presenza di persone nelle tue foto ad abitare i luoghi, come se fossero dei veri e proprio personaggi: puoi dirci come mai e che legame hai con il paesaggio?
Ogni progetto ha un suo tema ma sì, sono più interessato all’interazione umana con l’ambiente, urbano o naturale.
Nel progetto ‘Dead Sea’, i protagonisti sembrano essere la luce e il paesaggio rarefatto. Cosa l’attrae di questo luogo? Cosa vi cerca?
In realtà il mio scopo era differente. Se si considera ogni fotografia singolarmente l’impressione potrebbe essere quella ma l’intera serie parla del lago morente che è esistito per migliaia di anni e che ora sta sparendo e ha bisogno del nostro aiuto. Spero che dopo la pubblicazione del libro quell’impressione cambierà. Ci sono due luoghi al mondo dove mi sento “elevato”: a Gerusalemme e nella valle del Mar Morto. In questi posti semplicemente mi sento bene e non mi chiedo il perché.
Recentemente sei stato in Italia: come ha influito questo viaggio sul tuo sguardo?
Amo moltissimo l’Italia e ci vado ogni volta che posso. Ho molti amici lì ma non credo che brevi viaggi possano influenzare il mio sguardo fotografico. Per sentire ed esprimere qualcosa c’è bisogno di tempo, molto tempo. Sarebbe fantastico trascorrere degli anni in Italia su qualche particolare progetto ma al momento non sono li.
Ora una domanda tecnica: le tue fotografie hanno degli aspetti estetici molto diversi tra loro e talvolta sembra che tu faccia uso di vecchie ottiche, è così? Preferisci scattare in digitale o pellicola? E quanto è importante la post produzione per te?
Avete assolutamente ragione. Ho molte lenti e macchine Leica, li uso a seconda delle condizioni di luce o dei fini fotografici. In ogni caso non cambio l’obiettivo durante tutto il progetto. Ho abbandonato la fotografia analogica diversi anni fa ed ora mi dedico solo al digitale. Faccio post produzione il meno possibile e principalmente per calibrare luce e colore. Sento che i miei vecchi scatti sono troppo ritoccati, ed è un peccato. Per questo sono molto cauto con qualsiasi post produzione. Più invecchio, meno amo cambiare le cose.
Quando vendi le tue fotografie realizzi delle Limited Edition e collabori con delle gallerie o ti muovi autonomamente?
Vendo autonomamente.
Nell’avvicinarti alle persone che fotografi cerchi di nasconderti o preferisci essere visto e costruire consapevolmente con loro dirigendole?
Non costruisco le foto ma penso ogni scatto, anche per la foto più bella non vale la pena far sentire qualcuno a disagio per qualsiasi ragione, ne sono convinto. Se qualcuno esprime dissenso nell’essere fotografato, semplicemente faccio un passo indietro e cancello la foto.
Sul tuo sito ricorre spesso l’espressione “to capture images, capturing moment ecc ecc” eppure le tue foto non sembrano catturare momenti o sentimenti bensì storie di lungo tempo: si tratta di una parola usata dall’inglese che non corrisponde al tuo sentimento o se invece la parola è esatta, come riesci a conciliare l’idea dell’attimo con la profondità dei rapporti che emergono da ogni tua visione?
Credo che i progetti “Tel Aviv – Arad Express” e “Mea Shaarim nights” siano basati tutti su questo. Intendo sul catturare gli attimi. Il termine “catturare” è corretto. Questa sui rapporti e i sentimenti è una domanda interessante. Cercherò di spiegare. Credo che il bravo fotografo non sia colui che clicca il pulsante ma colui che sceglie gli scatti. Ciò che sto cercando di dire è che “gli attimi catturati” sono delle mie scelte personali che esprimono le mie particolari sensazioni.
Non faccio fotografia street o reportage. Cerco piuttosto di trovare una rappresentazione del mio sentimento verso un luogo o una persona. Se fotografo una singola brutta sedia di plastica nel mio progetto “Dead Sea”, esprimo il mio sentimento, il mio dolore, per ciò che sta succedendo lì.
Cosa ti piacerebbe che ritrovassero le persone guardando le tue immagini?
Guardarle ancora.
Esistono dei libri sul tuo lavoro?
Al momento sto lavorando sul mio primo libro.
Chiudiamo con la domanda che accomuna tutte le nostre interviste. Ci racconti di una foto mancata?
Se si intende chiedere cosa ho mancato di fotografare, è stato il nostro cane, morto giovane.
Intervista di Filippo Trojano, Riccardo Abati, Laura Altobelli, Patrizia Buffone, Andrea Cibra, Dario De Biaggio, Alessia Farina, Giuliana Pizzuti, Paolo Vescovo.
Traduzione di Patrizia Buffone.