Una reazione al dibattito proposto da Luigi Vergallo di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Siamo la Repubblica dello Iato. Il caso di Alfredo Cospito e il 41 bis non sono che una delle tante dimostrazioni a evidenza di una spaccatura profonda e pericolosa, che non è più quella fra classi sociali, che si gioca dentro tre parole che mettono in ginocchio la democrazia italiana: elettoralismo, ignoranza, impotenza.

Il caso che Alfredo Cospito ha sollevato con il suo corpo è paradigmatico: il 41 bis non solo non si capisce perché vada a colpire il condannato – in punta di diritto c’è una fattispecie terrorismo, ma sappiamo perché nacque il carcere duro e come si è trasformato nei diversi passaggi legislativi, oltre alle raccomandazioni della Corte europei dei Diritti dell’Uomo -. Ma oltre al suo caso, interessante e degno da affrontare, Cospito ci chiama a ragionare su un istituto che chiama in causa i diritti e il grado di maturità di una democrazia. Con chi ne parla lui che sta in carcere? Con dei detenuti. I diretti interessati, i mafiosi. Dietro le scrivanie li chiameremmo gli stakeholder. Il 41 bis nasce nell’era dello stragismo e serve per evitare che si comandi dalle carceri e però nel 2023, verrebbe da obiettare, se si vuole progredire nel diritto ci sono tecnologie e pratiche che possono aiutare a risolvere questo tipo di esigenza.

Ma il diritto e la giustizia spesso sono ciechi: se i poteri dello stato (minuscolo finché non rivolviamo alcuni problemi costituzionali) sono tre e quello giudiziario è indipendente, è vero però che le leggi si fanno in Parlamento. Per questo siamo democrazia parlamentare, per scrivere leggi e attuare riforme. Per questo abbiamo il principio della legalità democratica, cioè la possibilità dia difendere posizioni legittime quantunque a volte anche non legali, in attesa che l’asticella delle norme – che sono conservatrici per natura – si possa spostare una tacca più in alto.


I magistrati non sono il problema, se non nella loro facoltà di interpretazione che può essere però delimitata dalla norma. Non sono nemmeno i campioni della democrazia, come accadde di farli assurgere a quel ruolo negli anni 90, a contrasto rispetto agli attacchi berlusconiani in una guerra che oggi vede un senso di rivalsa con il Guardasigilli nominato dal governo. Oggi il 41 bis, passato attraverso più di una riforma, lascia ancora grandi margini di discrezionalità e ha aspetti borderline rispetto ai diritti umani. D’altronde già l’istituto carcerario e il luogo carcere sono temi irrisolti da troppo tempo. Il tema scomodo, il tema dove dimostrare che lo Stato è forte – quale incredibile fesseria si riesce ancora a proferire con il viso scultureo che ci ricorda i busti casalinghi di proprietà del Presidente del Senato.


Tocca alla politica, allora. O meglio toccherebbe. Eppure oggi – con il dovuto rispetto per chi fra i pochi che hanno voce invece lavora bene – la politica è quello spettacolo indecente che abbiamo visto in queste settimane, se non negli ultimi decenni. Aule ignoranti – dove si gridano cose, si citano carte riservate, si attaccano strumentalmente gli avversari, riesumando linguaggi di altre epoche buie della democrazia, attualizzandoli dentro un furbo elettoralismo, permanente, che vive di rilancio di finte notizie. Il caso Donzelli e Delmastro dice il livello di dove siamo arrivati, con accuse a un partito – il PD – di cui si può criticare anche ferocemente tutto l’impianto e le incapacità, ma non certo dire che possa essere sospettabile di collusioni mafiose.
Il circo è immediato e vive sul mainstream, che è l’agone della politica stupida, con frasi a effetto che fanno rimpiangere l’esistenza dell’istituto dell’immunità parlamentare.

I giornali, che non vengono letti ma detengono ancora un ruolo nel gioco della politica di Palazzo, non fanno che amplificare questo teatro, con un danno finale per la sobrietà e la coerenza che dovrebbe appartenere al dibattito istituzionale, che non è una riunione di condominio. Il giornalismo, o sedicente tale, ha enormi responsabilità in questo meccanismo, che si ripercuote troppo spesso su un pubblico ignorante.
È un pubblico che, in gran parte e a ragione, ignora cosa ci sia scritto nell’articolato del 41 bis; ne ignora la storia e ne ignora le riforme. Spesso ignora anche che con una semplice ricerca potrebbe leggere di che si tratta, ma si affida ai Tg: siamo un Paese vecchio, analfabeta funzionale. C’è poi un meccanismo social, che risale al commento da bar, o direttamente al mugugno con piatto in tavola davanti alla tv, ed è quello di un popolo di allenatori. Impigriti per larghissime fasce da oltre venticinque anni di televisione berlusconiana, rimbambiti da palinsesti ripetitivi, con personaggi clonati che resistono nel tempo come ologrammi scadenti. Cosa sanno di cosa significa essere anarchici? Cosa conoscono della legislazione antimafia dello stragismo? Come potremmo spiegare loro, nei formati che frequentano, cosa significa essere uno stato di diritto e garantista, quando gli onorevoli impuniti sono i primi a far leva sul luogo comune, anzi montano una polemica fra istituzioni confondendo i piani fra anarchici e mafiosi in una maionese impazzita che schizza ovunque? Quando i proclami sono disumani, quando si fa la mascella quadrata di fronte a chi passa il Mediterraneo e anzi siam capaci di fornire navi alla guardia costiera libica, vendere e fare affari con dittatori, far finta di essere green e distruggere l’ecosistema e il nostro futuro, ovviamente per i soliti soldi?

Le domande che pone Luigi Vergallo nel finale della sua analisi efficace – e grazie per aver aperto questo dibattito – sono quelle che contano. Ma il contesto cognitivo sociale maggioritario in cui viviamo è deteriorato, in alcune zone è proprio marcio, irrecuperabile e spesso sono quelle di chi fa carriera in politica. Come se avessero cancellato la memoria proprio nell’era in cui i motori di ricerca possono agilmente aiutarti a ricordare i minimi dettagli di cose accadute decenni fa. La terza parola della Repubblica dello Iato, la repubblica dove gli eletti dal popolo rappresentano solo i propri interessi con dinamiche avulse e che si auto-rappresentano sui social o che vivono nella polemica del giornalismo avulso esso stesso dal proprio obiettivo principale – informare e creare quindi cultura – è impotenza.
Non potere, cioè la mancanza di poter incidere. C’è una grande parte sociale di questo Paese, e sono le persone di giovane età, che spesso osservano questi giochi con indifferenza o con anche una punta di divertita lontananza, mentre c’è e si respira una attenzione che pone l’accento sulla questione dei diritti della persona e collettivi.


Se c’è una possibilità per la democrazia di salvarsi è lì, nel fatto che giovani generazioni sono capaci di considerare il futuro come un luogo in cui il rispetto o il progredire dei diritti umani è un dato politico pari a quello che noi persone del Novecento abbiamo respirato nelle ideologie e nei valori delle grandi famiglie della politica.
Cospito si spegne in carcere, mentre milioni di persone guardano la TV e i monologhi sui diritti civili o sull’Iran, sul razzismo. Il luogo dello svago e della canzone, cosa propone per tenere incollati lo svago e lo show? I diritti umani. La citazione del nazional popolare non deve far arcuare il sopracciglio, perché stiamo parlando di nuovi canali, di nuovi medium per i messaggi che conosciamo e che stanno a cuore nella difesa della democrazia. L’influencer, che è un medium, non parla a me, parla a chi si beve i suoi messaggi come una bevanda fresca in un deserto arido, non di contenuti, ma di come farli arrivare.L’impotenza è un’arma della Repubblica dello Iato. E le risposte agli interrogativi di questa pregevole iniziativa di Fondazione Feltrinelli, che Vergallo cita così: Possibile che le istituzioni italiane, il giornalismo, l’opinione pubblica non abbiano la maturità per stare sul punto? Come e perché lo Stato italiano, mentre l’Europa ha già mosso i noti rilievi a questo istituto carcerario, ritiene di continuarne l’applicazione del 41 bis? Come e perché, la democrazia italiana, è ancora incapace di promuovere una discussione profonda su un tema così delicato come il carcere, la gestione del conflitto, la vita delle persone? Come e soprattutto perché la democrazia italiana non ha la forza di interrogarsi sul suo grado di maturità e su tematiche non solo cogenti ma strutturali del nostro essere una democrazia attenta ai diritti e adatta ai tempi? hanno una risposta che apre la porta a nuove possibilità. E che trovano un via di uscita dentro le risposte che dobbiamo cercare rispetto ad altre domande, quasi in un gioco di specchi. È vero; facendo così si moltiplicano i dubbi, ma forse si può chiarire quale può essere il compito dei tanti, e sono tanti, soggetti che possono essere utili strumenti in questo percorso necessario. C’è una grande parte di questo Paese che collabora, che stringe reti, che costruisce progetti e non abbatte, che è coerente e sobria, che non ha bisogno del palco, o del pulpito, che fa e che è politica, che è democrazia.

Allora, ecco le domande che rispondono alle domande di Vergallo: come sradicare una classe politica incapace di vivere la realtà del Paese? Come impiantare un pensiero contemporaneo e di futuro che metta in discussione, per esempio, l’istituto carcerario come è concepito oggi? Cioè con quali mezzi di diffusione del dibattito. Come possiamo rinnovare il panorama dell’informare, in una logica che rottami definitivamente le penne e l’oligopolio di chi vive ancora nel passato o dentro l’editoria condizionata dagli interessi economici, o dentro situazioni scollate dai fremiti che vibrano nelle nostre città? Come possiamo svecchiare la classe dirigente? Ma soprattutto come formarla, come possiamo tornare a formare alla politica e come possiamo dire che è un luogo utile e responsabile, non uno spot personale per fama e potere? Come possiamo far capire che democrazia e cultura sono collegate e far tornare la voglia di partecipare. Alla democrazia e alla cultura.
Lo iato non può che divaricare, dentro una società indebolita dall’individualismo sfrenato, fortemente voluto, strumento di controllo, cantato da sirene affascinanti e irresistibili. E però, come ci ha avvertito Enzo Risso, direttore di Ipsos, siamo di fronte a un mutamento possibile, al ritorno delle reti sociali, della complementarietà, che presuppone una rivalutazione e un moltiplicatore di quell’umanità che ci è stata abrasa negli ultimi decenni con falsi miti e promesse. Un mediocre politico direbbe che dobbiamo fare riforme, un uomo del Novecento come me parlerebbe di rivoluzione: chissà come la chiameranno i più giovani. L’unica certezza, però, è che non si può restare a guardare.