La fiamma del vecchio Movimento sociale italiano, MSI, di Giorgio Almirante brucia ancora nel simbolo di Fratelli d’Italia. È il primo pensiero da uomo del Novecento che questa mattina mi ha colto al risveglio mentre ascoltavo l’ottimo lavoro di Radio Popolare nella cronaca dei risultati e dei commenti. La seconda domanda che si è infilata di sottecchi è stata: chiedi a quanti fra quei settemilionieduecentomila e qualcosa di elettrici ed elettori hanno un’idea di chi era Almirante, il MSI, la fiamma e come ci è restata. Poi mentre salgo in macchina sento il microfono aperto della radio e chiama un signore di Vercelli, accento delle risaie piemontesi: io chiedo scusa, dice, ma quesa volta non ho votato. È garbato, poi si scalda. Ma il Pd, dice, ha lasciato i temi sociali ai Cinque stelle, qui ci sono padri che han perso il lavoro perché non avevano il greenpass, il reddito di cittadinanza, dice, lo ho portato avanti solo Conte.
Non è vero, penso, perché ci sono provvedimenti, storie, mancate battaglie, divieti incrociati e tanta troppa dichiaratia, che quando eccedi nel botta e risposta personale o di bandiera non li mobiliti più gli elettori, perdi l’attenzione di chi vuole solo guardare alla vita concreta e non alla questione identitaria di partito.
Però quel signore, mi pare si chiamasse Luigi, era interessante nel suo parlare semplice, perché diceva una cosa vera e genuina.
Ci hanno insegnato a disprezzare le ideologie, dopo la caduta del Muro, io continuo a pensare che fossero un punto di appoggio culturale forte e utile, ma pessimo al momento di trasformarle in realtà da parte degli uomini e delle donne così sensibili per natura al potere. Eppure, la vita quotidiana non è vero che non chieda politica. La vita quotidiana è la politica, perché la visione del mondo è nelle piccole cose e non nei proclami, è nel costruire insieme e non nel mettere cattedrali imposte nel deserto.
Quando i partiti scendono dalle torri delle giacche, cravatte e outfit raffinati verso il popolo, dico proprio la ggente quella con due g, quella che non legge, che non si interessa, che guarda anche in maniera egoistica solo al proprio, spesso arrivano con le promesse. Ma le promesse suonano come il 2×1 del discount, fatto salvo che alla cassa lo sconto lo fanno davvero, mentre i partiti poi, spesso, i programmi li mettono in soffitta.
Allora, terzo pensiero mentre vado al lavoro, questo voto di protesta, che sta dentro l’astensionismo e che sta dentro il voto di destra come semplicemente provare un nuovo device, un nuovo decoder, vediamo se si vede meglio la partita, un nuovo paio di scarpe e vediamo se non si rompono o non mi fanno le bolle, che è dentro ormai da decenni una parte importante dell’elettorato, come si fa a recuperare?
C’è chi non si sente rappresentato e vuole senso e partecipazione, coerenza.
C’è chi non ritiene che sia utile o interessante andare a votare e non ci va.
C’è chi avrebbe votato, ma non siamo capaci nel 2022 di assicurare il diritto ai fuori sede, una cosa incredibile, anticostituzionale nei fatti.
Se c’è una risposta utile per tutto questo, se esiste una sorta di medicina o antidoto, credo che sia la parola cultura.
La cultura è una parola che si declina e che vive anche da sola. La cultura di essere cittadini attivi, di avere diritti, la cultura del conflitto e del chiedere, a volte pretendere, la cultura come conoscenza – ovviamente – e occasione di rendere migliori noi stessi, un meccanismo che venticinque anni di berlusconismo ha infangato arrivando a instaurare l’in-cultura o la sub cultura dell’apparire, del vuoto a favore del bagaglino, i giochi romani per tenere impegnato il popolo, mentre l’imperatore agisce indisturbato.
La cultura economica e finanziaria, cui i partiti progressisti di centro hanno abdicato per circondarsi di sirene neoliberiste, inseguendo modelli che hanno individuato nella moderazione, nell’asservimento al capitalismo come sistema inevitabile, o fintamente emendabile, una risposta allo schierarsi ideologico, anche sanguinoso, del Novecento.
Eppure basterebbe guardare a quanta vita c’è in migliaia di progetti che animano il sociale, il senso di comunità, di intreccio, a quanta richiesta c’è di formazione, di avere strumenti, di avere fondi, soldi, per attività culturali e di coesione, a quanto si dovrebbe spingere sulla cultura, ricreare un mito, ma vero, che dice che non è una condizione. Che è normale avere sete di cultura, cioè di conoscere.
Passa dalla televisione, passa dai mezzi di comunicazione, dalla pubblicità e dal ruolo del servizio pubblico dentro la comunicazione e l’informazione. Passa dai palinsesti e dai finanziamenti, passa da un linguaggio nuovo e diverso, che non vive di social e della battuta, ma di parole ponderate, passa dal regolamentare l’accesso della politica nei social network per evitare lo scadimento macchiettistico di chi pensa di accaparrarsi simpatie con uno scatto demente (tipo i meloni).
Passa da questo e da altro, ma soprattutto dal recuperare credibilità e nel prendere una posizione, schierarsi a seconda di quello che ci muove rispetto alla convivenza globale.
Oggi il quarto pensiero è stato per questo proposito: quello di cercare, sempre, di riportare questa parola, cultura, nel posto che le compete. Un posto normale, quotidiano, sfidante e ambizioso, per dare anche in una funzione pedagogica di cui non dobbiamo avere paura, nuove speranze alla partecipazione e quindi alla scelta nel momento della delega. Tornare alla politica è fare cultura nel quotidiano, cultura dell’ascolto, per prima cosa e cultura delle soluzioni possibili, senza particolari strategie della partitocrazia. Quelle strategie, pensate com’è paradossale, sono nate in funzione elettorale e cioè per prendere più voti. E alla fine tengono in ostaggio la nostra vita.