Il 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi aveva diciott’anni. Gli stessi che sono passati tra il giorno del suo omicidio e l’anniversario, ormai alle porte, del 25 settembre 2023.
Tra pochi giorni, il delitto che ha sottratto Federico all’affetto della sua famiglia e dei suoi amici raggiungerà la maggiore età, in un rincorrersi di numeri che invita alla (ri)scoperta di questa storia di ordinaria violenza italiana.
Questo il sottotitolo che accompagna Zona del silenzio, di Checchino Antonini e Alessio Spataro, inchiesta di graphic journalism sul caso Aldrovandi pubblicata nel 2009 da Minumum Fax.
A pochi anni di distanza dall’omicidio, il volume ricostruisce la vicenda da un punto di vista specifico: quello del giornalista che l’ha svelata al mondo dalle colonne di Liberazione.
È il gennaio 2006 quando il quotidiano di Rifondazione Comunista, insieme a Indymedia e Radio Onda d’urto di Brescia – porta l’attenzione dell’informazione nazionale mainstream sulla morte sospetta di quel ragazzo a Ferrara.
Quattro mesi. Tanto ci è voluto perché il “caso” diventasse tale. Il che dice tutto sui tentativi di insabbiamento e depistaggio messi in atto dagli agenti di polizia coinvolti, oltre che sulle coperture ricevute.
A porre la vicenda all’attenzione di Antonini – che nel fumetto diventa Simone – le notizie diffuse nel circuito dell’informazione indipendente a partire dal blog portato avanti con tenacia dalla madre di Federico, Patrizia Moretti.
Dal momento del primo contatto con la notizia, inizia un lavoro d’inchiesta che vede il reporter raggiungere Ferrara per conoscere proprio i genitori di Federico e indagare sugli aspetti più oscuri dell’accaduto.
Tra le tante persone che affiancano Simone nel suo lavoro c’è anche il giovane fumettista Michele – alter ego di Alessio Spataro – che trasforma l’inchiesta di Antonini in un fumetto, curando sia i disegni sia la sceneggiatura.
Le tavole disegnate di Spataro sono l’elemento che caratterizza in modo più riconoscibile Zona del silenzio, tanto precise nella raffigurazione quanto originali nella scelta dello stile cartoon.
Nonostante i predecessori illustri – primo tra tutti il Maus di Art Spiegelman, premio Pulitzer nel 1992 – va comunque sottolineata la scelta non scontata di raccontare in questo modo una vicenda così delicata e complessa.
Proprio come in Maus, infatti, i protagonisti del fumetto sono rappresentati con fattezze animali – gatti per la famiglia Aldrovandi, cani per gli agenti di polizia, e via dicendo – scelta che va oltre l’evidente valore simbolico.
Questo particolare casting, infatti, aggiunge alla narrazione un generale senso di ironia – spesso amara, ma con qualche concessione alla comicità – che non tutti gli autori avrebbero avuto il coraggio di scegliere per una storia simile.
Ironia che, peraltro, ritorna nei nomi storpiati con i quali vengono identificati i personaggi pubblici dell’epoca: è così che Berlusconi diventa Berluscroti, Prodi si trasforma in Brodi, Bertinotti in Bertinoia, eccetera.
Strappa un sorriso amaro anche la raffigurazione della ricostruzione dei fatti offerta dagli agenti e dalla Questura, talmente assurda da risultare, a posteriori, tragica nella sua falsità quando comica nel presunto sviluppo.
Per il resto, come prevedibile, c’è davvero poco da ridere: il volto massacrato di Federico in forma di gatto è un’immagine che basta, da sola, a sintetizzare l’ingiustizia del suo omicidio.
Un delitto che a quasi vent’anni di distanza mantiene tutta la gravità del giorno in cui è stato commesso, amplificata dai numerosi omicidi simili avvenuti prima e dopo, da Carlo Giuliani a Stefano Cucchi, solo per citare i più noti.
Vicende peraltro di estrema attualità, se si pensa ai recenti fatti di Verona e alle proposte di legge attualmente in discussione al Senato per modificare o abrogare la legge che ha istituito il reato di tortura, peraltro recentissima.
Una norma di civiltà – diventata realtà anche nel nostro Paese dopo quasi trent’anni di attesa – che dovrebbe essere rafforzata, non abbandonata alla mercé di un dibattito politico dall’esito tutt’altro che scontato.
Formazione, democratizzazione e trasparenza della polizia sono questioni non più rinviabili, se vogliamo che la zona del silenzio dell’ippodromo di Ferrara non si estenda all’Italia intera.