Ci sono pagine di letteratura in grado di parlarci del presente senza ridursi alla cronaca. Ci sono poesie in grado di contenere la solitudine e lo sconforto che i tempi di conflitto sollevano in noi, regalandoci qualcosa di più di una mera consolazione. Ci sono poeti, come Zbigniew Herbert, che non rifuggono dalla storia, ma che anzi cercano nella poesia un rapporto con la storia – il senso del nostro esistere nel tempo.
Nato nel 1924 a Leopoli, Zbigniew Herbert cambiò cittadinanza quattro volte, senza mai abbandonare il proprio paese. Ripercorrendo la biografia di un poeta si cade talvolta nella tentazione di dissezionarne i versi, cogliendovi solo una clinica trascrizione dei fatti vissuti, ma fu lo stesso Herbert ad ammettere quanto un senso di appartenenza ambiguo, e un’identità continuamente smarginata e ridefinita avessero inciso sulla sua poesia. Città della Galizia austroungarica e poi polacca, Leopoli subì a distanza di pochi anni sia l’occupazione nazista che quella dell’Armata Rossa, fino a divenire parte dell’Ucraina con la dissoluzione dell’URSS nel 1991. «Ho sperimentato quattro sistemi politici molto diversi» rivelò Herbert in un’intervista in parte riportata nella postfazione dell’antologia Rapporto dalla Città assediata, pubblicata da Adelphi nel 1993 con la traduzione di Pietro Marchesani. «Quest’addensamento ha suscitato in me un senso storico, una certa empatia, forse addirittura la capacità di comprendere epoche lontane.»
Sin dal titolo, Rapporto dalla Città assediata riassume amaramente almeno cento anni della storia di Leopoli, ma rappresenta anche un’affilata dichiarazione di poetica. Così scrive Herbert nel componimento che dà il titolo all’antologia:
Troppo vecchio per portare le armi e lottare come gli altri –
hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista
Fra le pagine non incontreremo allora né muse né divinità incantatrici, solo un poeta-cronista che ci racconterà «la storia di un assedio» cominciato in un tempo immemorabile.
duecent’anni fa in dicembre forse all’alba di ieri
qui tutti soffrono di perdita di senso del tempo
ci è rimasto solo il luogo l’attaccamento al luogo possediamo ancora rovine di templi spettri di case e
giardini
se perdiamo le rovine non ci resterà nulla
Nemici senza nome premono alle porte della Città, i colori dei loro vessilli cambiano «come il bosco all’orizzonte»: «nulla li unisce» assicura Herbert, «tranne la voglia di annientarci». Trasfigurata in poesia, Leopoli si sottrae alle mappe e alle coordinate storiche, assumendo l’aspetto di ogni città violata nel tempo. Trasfigurata non è però il termine giusto perché fa pensare a un indoramento, a una speciale elevazione, mentre la poesia di Herbert procede per il movimento inverso, per un’implacabile scarnificazione della lingua che, senza enfasi né sentimentalismo, fa il conto di ciò che rimane una volta che la storia ha fatto il suo corso.
girovago a lungo
per viali di case bruciate
viali di zucchero
vetro frantumato
riso
potrei scrivere un trattato
sulla repentina trasformazione
della vita in archeologia
C’è un’essenzialità nella scrittura di Herbert, quasi che la poesia fosse prima di tutto enumerazione, il tentativo di tratteggiare le cose perché possano esistere sulla pagina. Ha ragione Josif Brodskij a lodare, nella Lettera al lettore italiano che accompagna l’antologia, la discrezione con cui il poeta ci conduce fra i resti di questa Città malandata: «la mia impressione complessiva delle sue poesie è sempre stata quella di una nitida figura geometrica (un triangolo? un romboide? un trapezio?) incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale. Più che ricordare i suoi versi, il lettore se li ritrova marchiati nella mente con la loro glaciale lucidità.»
È forse attraverso questa glaciale lucidità che dovremmo leggere l’amore di Herbert per gli autori greci e latini. In una poesia intitolata Perché i classici, Herbert richiama il quarto libro della Guerra del Peloponneso, in cui Tucidide narra della sua sfortunata spedizione: arrivato tardi con i soccorsi, la colonia ateniese di Anfipoli cadde nelle mani di Brasida, e Tucidide pagò il prezzo di questa disfatta con l’esilio dalla sua città.
i generali delle ultime guerre
se capita un simile imbroglio
guaiscono in ginocchio dinanzi alla posterità
lodano il proprio eroismo
e innocenza
accusano i subalterni
i colleghi invidiosi
i venti sfavorevoli
Tucidide si limita a dire
che aveva sette navi
che era inverno
e navigava veloce
A scuola ci viene spesso insegnato a leggere i testi antichi per estrarne massime di erudizione, mentre Herbert insegna che la grandezza di ogni autore che meritatamente chiamiamo classico sta anzitutto nella lingua, nell’eleganza di un pensiero che procede senza sperpero di aggettivi, nell’esattezza di una sintassi, come ha scritto Antonella Anedda a proposito di Tacito, che agisce «come un laccio emostatico, frenando enfasi e lacrime». Herbert torna ancora su questa «necessità dell’esattezza» in uno dei componimenti finali del libro, proponendo di abolire «l’infame parolina circa» per riferirsi al numero di caduti in battaglia:
eppure in queste cose
ci vuole accuratezza
non è lecito sbagliarsi
neppure di uno
siamo malgrado tutto
custodi dei nostri fratelli
l’incertezza sui dispersi
incrina la concretezza del mondo
spinge nell’inferno delle apparenze
nella diabolica rete della dialettica
proclamante che non c’è differenza
tra sostanza e spettro
La questione della lingua allora non è secondaria, perché proprio nella costante ricerca della parola esatta, in quanto del mondo sapremo nominare o consegneremo alle ceneri della storia si gioca non solo il valore della poesia, ma la differenza «tra sostanza e spettro», nientemeno che il nostro essere umani.
Ci sono due componimenti, Meditazioni sul padre e La Madre, collocati proprio nel bel mezzo dell’antologia, che sembrerebbero stonare rispetto a tutto il resto. Finora Herbert non si è mai concesso note personali: nei suoi versi ha attraversato rovine e viali infranti, tra i resti e i simboli del mondo occidentale ha dialogato con Amleto, Marco Aurelio o con il Signor Cogito (un’ironica antropomorfizzazione del cogito cartesiano), si è inalberato per le ambizioni di un Caligola qualunque e commosso per due innamorati che si riparavano l’uno nell’altra mentre i boschi bruciavano («la gente correva nei rifugi – / lui diceva mia moglie ha capelli / in cui ci si può nascondere»). Ora anche i genitori figurano tra gli spettri da cui congedarsi; o meglio, più che a spettri, somigliano a divinità impotenti. Se la madre siede sul trono da regina solitaria, e le sue mani protese «risplendono nel buio come una città antica», la deposizione del padre è più amara – non avviene per rivolte o regicidi ma con la banale ferocia di uno sfratto – e porta con sé la deposizione degli idoli di un’intera cultura.
pensavo che mi sarei seduto alla sua destra
e che avremmo separato la luce dalle tenebre
– è andata altrimenti
un robivecchi ha portato via il suo trono
e l’atto di ipoteca la mappa dei nostri possedimenti
Sono passati trent’anni dalla pubblicazione di queste poesie in Italia, molti di più da quando Herbert le ha scritte; la Città è ancora assediata. Altri nemici premono alle sue porte, altri ancora forse si presenteranno sotto la veste di liberatori, e nuove Leopoli si assommano nella spirale della storia. Ciò che rende necessari i versi di Herbert non è tanto la cronaca, ma la certezza che esista, malgrado tutto, un paese dell’anima, ed è l’unico in cui abbiamo cittadinanza; da questo luogo la poesia ci chiama, esigendo esattezza, invitandoci a essere «custodi dei nostri fratelli», e nell’impotenza, nella distruzione, nella furia dei confini continuamente rinegoziati questo è davvero l’unico luogo che non può esserci sottratto. Scrive Herbert nei suoi ultimi versi:
e se la Città cadrà e se ne salva uno
lui porterà in sé la Città lungo le vie dell’esilio
lui sarà la Città