Pietro mi accoglie nel suo bellissimo appartamento in centro storico. Di mestiere fa il marinaio sulle barche a vela da diporto, incarna alla perfezione la vita di un genovese del Novecento nato nei vicoli che d’estate prende il mare e sta via dai tre ai quattro mesi. Ma questa è solo una parte del suo lavoro, d’inverno infatti si spende in cantiere per lavorare sulla barca che necessita di una cura costante e, proprio per questo motivo, dev’essere sottoposta a un’accurata manutenzione per renderla sempre efficiente e pronta all’uso. Sì perché il diporto è quell’ambito della nautica che si occupa di mezzi posseduti da privati. Il tipo di barca su cui lavora Pietro è una barca di lusso, una barca a vela di grandi dimensioni con un equipaggio che dev’essere in grado di portarla in tutte le condizioni di mare, ma che contemporaneamente deve anche saper offrire e garantire un alto livello nell’accudire il padrone e gli ospiti della barca. “È un incrocio tra l’hôtellerie da una parte e la vita marinaresca dall’altra”.
I ruoli, anche sulle barche più grandi, si dividono in personale di coperta, personale di macchina e quello più legato appunto all’hôtellerie.
Il mondo del diporto sulle barche a vela delle dimensioni di quella sulla quale lavora Pietro è un mondo abbastanza piccolo (se ne contano solamente trecento in tutto il mondo), in cui armatori facoltosi possiedono barche per il godimento del loro tempo libero.
Rimango sempre un po’ perplesso e incuriosito quando mi racconta del lavoro che fa, perché è un mondo davvero distante e lontano dalla mia quotidianità. Quando gli chiedo quale sia la differenza tra veleggiare con i padroni e veleggiare con solo l’equipaggio, la risposta è eloquente: “Veleggiare con loro ha a che fare con un gioco, tu esci per mare quasi solo con delle condizioni perfette e quindi sai che hai tra le mani un oggetto che più o meno sai gestire, poi c’è tutto il resto cioè mediare con loro che vogliono fare una vacanza e il mare che se ne fotte della loro vacanza. Perché se c’è un metro d’onda, c’è un metro d’onda al netto dei denari che puoi schierare. La loro risposta ai problemi è costantemente il lusso, cioè la disponibilità non calcolata di risorse per risolvere i problemi. Quindi in qualunque momento possono mettere sul piatto una marea di denari per risolvere qualunque cosa. Dall’altro lato, quando invece siamo solo noi dell’equipaggio, ci sono molti aspetti belli e positivi del veleggiare, perché comunque andare a vela in una bella giornata con tutte le cose che funzionano come devono funzionare, e pensare che stai spostando 30, 40, 70 tonnellate con la forza del vento e con solamente la tua capacità di capire come mettere le vele è un regalo meraviglioso e non c’è niente di paragonabile”.
Ma non è sempre così tutto idilliaco. Una persona immagina che a questa immensa disponibilità di denaro da spendere possa corrispondere anche un adeguato trattamento salariale, invece no. Le dinamiche padronali e di classe sono sempre le stesse in ogni ambito lavorativo:
“La normalità in questo lavoro è avere contratti precari, nel senso che esiste questa ulteriore complessità delle bandiere. Le barche battono bandiere diverse, cioè appartengono alla marina di stati diversi, ma lavorando su queste barche tu lavori in quegli Stati”.
“Quindi nel momento in cui la barca batte bandiera panamense tu formalmente lavori a Panama, pertanto puoi facilmente avere un contratto panamense, e i contratti panamensi e i contratti delle Seychelles, come quelli delle isole della Manica, come quelli di altri posti, sono contratti che non hanno niente a che fare con quelli che ci sono in Europa. Nel senso che tu firmi contratti in cui espliciti la rinuncia alle ferie, firmi contratti in cui affermi che non fumerai e dove assicuri che non berrai alcolici. Formalità nella maggior parte dei casi, formalità che però in qualsiasi momento possono essere impugnate. I contratti durano spesso qualche mese, già è una conquista avere contratti che durano un anno, molto più rari sono i quelli a tempo indeterminato”.
“Però poi noi mettiamo in pratica le contromisure come in ogni lavoro. Uno si può inventare un sacco di cose per migliorare la propria posizione, di solito gli armatori non hanno piacere ad avere persone diverse che girano ogni anno. Io dico spesso che noi siamo personale servente navigante, la persona che viene a casa tua a fare le pulizie hai piacere che sia sempre la stessa perché tocca e lava le tue mutande, mette a posto la tua spesa ecc. Questo vale allo stesso modo anche in barca, ed è una leva che tu hai dalla tua parte per riuscire a sfruttare al meglio questa loro pigrizia”.
In questo contesto il mare resta lo sfondo, come se fosse un ambiente neutro, ma in verità è qualcosa di presente e spesso imprevedibile, ingovernabile e impossibile da controllare. Il mare necessita ancora di una cosa che nonostante tutta la disponibilità economica non si può comprare, ed è la fiducia di chi lavora con te.
“Il mare è molto grande e la prima cosa che mi fa venire in mente non è la libertà, nel senso che non è vero, è una fantasia che uno si mette per mare e va dove gli pare. Teoricamente è possibile, praticamente è una cavolata. Di solito ti metti per mare e vai dove dice lui, poi più sei bravo più riesci ad andare dove vuoi tu. Il mare ti mette di fronte a ripetute notti insonni che mettono in crisi la tua capacità di discernimento, accumuli di fatiche che non rendono possibili cose che venti ore prima lo erano. È necessario fidarti delle persone che hai intorno (anche fisicamente) e delle loro capacità. Quando vado a dormire io sto dormendo in un guscio di noce dicono molto grande, ma è comunque lungo venticinque metri che rispetto al mare non è niente. Quando io dormo c’è qualche mio collega dell’equipaggio che sopra controlla che tutto vada bene, e tra di noi dobbiamo per forza fidarci. Fa un po’ strano dirlo, però ci sono una serie di pericoli che uno mette in conto, perché ci sono forze che si esprimono. Quando andiamo a vela (ormai le navi hanno 40-50 metri di alberi) si sviluppano forze attorno a te che fisicamente non sono gestibili con le braccia, quindi hai bisogno di aiuti meccanici in modo tale che tu riesca a far fronte e a tre appartamenti in metri quadri di vela sulla tua testa che ti spingono da qualche parte. La gente muore sul lavoro perché si ritrova a fare delle cose che non vanno fatte. Il motivo di conflitto più grande con gli armatori è che loro quando sono in vacanza vogliono fare tutto quello che gli viene in mente, certe volte però non è possibile, e questa cosa genera discussioni”.
“Del mare devi averne un enorme rispetto perché non è alla tua mercé e non ne puoi fare quello che vuoi. La sera, si dice sempre, non ci sono taverne per mare, perché non è che la sera ti fermi e riposi”.
Se però provi a chiedere a Pietro se si sente il custode di una qualche tradizione marinara, lui ti risponde in modo fermo e determinato dicendo che non si sente il custode di niente. Noi non marittimi siamo stati abituati allo stereotipo del marinaio che coltiva una visione romantica e a tratti decadente del proprio lavoro. Per Pietro non esiste nulla di tutto questo nella sua vita perché il mare è collegato, per le generazioni precedenti, “a lavori di enorme fatica che si sperava di abbandonare. Come le fabbriche, non è che uno spera di mandare il proprio figlio a lavorare in fabbrica, così più o meno la gente spera di non mandare il proprio figlio a lavorare in mare. La mia famiglia lavora con il mare a vari livelli da che ne abbiamo notizia e lo fa nel tentativo di non lavorarci tanto vicino, perché più vicino ci lavori più ti fai male, più ti fai il mazzo e più ti spacchi la schiena. Il tentativo è di starne lontani. In realtà poi facendolo ti rendi conto di far parte di un posto, che è Genova, in cui il mare è una delle fonti di reddito maggiori. Il porto, ad esempio, è uno dei settori principi della città, un settore che in un qualche modo sopravvive alla deindustrializzazione rimanendo un settore gigantesco che impatta enormemente sulla città: ferrovie, dighe, costruzioni, container, navi, crociere. Ora che ci sono dentro, che faccio appunto questo mestiere, mi sento a casa e mi sento a casa anche perché riconosco qua attorno un’interdipendenza rispetto al posto in cui lavoro, mi sento in qualche modo a mio agio, mi sento un soggetto centrato nel posto in cui vivo”.
Il porto più sicuro rimane però sempre e solo Genova, perché principalmente non esiste altro luogo che lui potrebbe definire casa. Pietro però è una mosca bianca in città, nel senso che in pochi qui a Genova si interessano al mare in quanto tale, principalmente perché il mare si è sempre più allontanato dalla città.
Il cittadino che vive Genova vive il mare sempre più lontano, “la gente ci va a fare il bagno quando non ci sono troppi turisti, ha un rapporto scarso con il mare, sa poco di mare, si interessa poco di mare, ha un approccio più turistico. Ed è quello che fa la città, se vedi dove la città incontra il mare lo fa in due maniere: o portuale o turistico e quasi in nessun altro modo. Le persone hanno poco una loro barchetta (un gozzo, una cosa minima), hanno poco una loro passione, certo ci sono quelli che fanno pesca subacquea, che pescano, ma non è un tratto distintivo della città. Nonostante questo, però, quando te ne vai da Genova il mare manca e manca a tutti, l’odore ti manca, il rumore ti manca, sapere che c’è ti manca, saper che puoi andare in un posto e vedere l’infinito ti manca. Questo però ha più a che fare con questioni emotive e con le strutture dell’anima e meno ha a che fare con la frequentazione del mare”.
Che sia la struttura dell’anima o dell’albero di una vela, la direzione da prendere non è mai esclusivamente una nostra scelta, bensì il frutto del nostro adattamento alle circostanze esterne che spesso determinano la nostra rotta. Qualcosa ci mancherà sempre, ma sarà tra le assenze che ritroveremo le motivazioni per il ritorno.