Non stupisce che i registi Dayna Goldfine e Dan Geller abbiano scelto di raccontare Leonard Cohen attraverso una prospettiva ben precisa, e cioè le tormentate vicissitudini che hanno portato alla stesura di Hallelujah. Si tratta non solo del brano più celebre del cantautore canadese, ma anche di quello in cui la sua poetica si rivela con maggior limpidezza. Basta ascoltare i primi due versi per rendersene conto: Now I’ve heard there was a secret chord / that David played, and it pleased the Lord. C’è già qui tutto quello che dovremmo sapere sul conto di Cohen – la sua inquietudine religiosa, l’idea del poeta-cantautore come uno speciale messaggero, la convinzione che ogni “segreto accordo” arrivi da un altrove solo parzialmente umano. Il tutto cantato con un’elegante, trattenuta malinconia.
L’intuizione di partenza di Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song, insomma, non poteva che essere che essere buona. Anche perché, ripercorrendo la storia del brano grazie alle interviste ad amici, fidanzate, cantautrici e collaboratori di Cohen, mischiate a un nutrito materiale di archivio, emerge il ritratto di un artista che voleva essere tutto, fuorché un’icona. Se siamo abituati a geni musicali che hanno bruciato il loro talento, e la loro vita, prima dei trent’anni, Cohen prima dei trent’anni non aveva scritto neanche una canzone.
Se Bob Dylan si vantava di comporre molti dei suoi pezzi a bordo di un taxi, Cohen ammetteva che per lui la scrittura era un processo molto lento e faticoso – “Se sapessi da quale luogo vengono le canzoni,” diceva, “ci andrei più spesso”.
L’ispirazione per lui si accompagnava a qualcosa che si addice ben poco alle biografie appassionate dei divi musicali, e cioè lo studio: Hallelujah fu scritta in un momento di profonda riscoperta delle proprie origini ebraiche, e l’Antico Testamento rappresentò una fonte fondamentale. A una versione soddisfacente Cohen arrivò nel 1984, dopo cinque anni di lavoro, decine di versioni e più di 180 versi scritti. Fatica inutile, per la Columbia Records, che non apprezzò né il brano né l’album in cui era contenuto, Various Positions, e si rifiutò di farli uscire negli Stati Uniti. “We don’t know if you are any good”, non sappiamo se tu sia davvero bravo, gli disse il produttore Walter Yetnikoff.
Various Positions fu pubblicato nello stesso anno dalla casa discografica indipendente Passport Records, ottenendo scarsissimo successo commerciale. Se a questo aggiungiamo che la versione poi passata alla storia non è quella interpretata da Cohen, capiamo che Hallelujah rappresenta l’anti-hit per eccellenza. Fu infatti John Cale, ex componente dei Velvet Underground, a mitigare gli aspetti religiosi del brano rendendolo una ballata di successo, più terrena e sensuale: nella versione incisa nel ’91, Cale lavorò tanto sull’arrangiamento quanto sul testo, reintegrando alcuni versi scartati dal cantautore canadese e lasciando solo un breve accenno alla figura biblica di Davide, che inizialmente aveva molto più spazio, ed era stato scelto da Cohen come simbolico punto di incontro tra la tensione spirituale e la passione terrena. Ma fu Jeff Buckley a sviscerare del tutto il pezzo, in una versione che ha davvero qualcosa dell’operazione a cuore aperto.
Basta guardare i filmati d’archivio: quello che si esibisce nel ’91 alla St. Ann & Holy Trinity Church di Brooklyn è un ragazzo efebico, disallineato nelle mosse, la sua pelle marmorea risplende sotto un fascio di luce rivolto a lui soltanto.
Con Buckley Hallelujah diventa preghiera e performance, e la richiesta di essere salvato da un desiderio ingovernabile, quasi sovversivo per la sua intensità (she broke your throne / she cut your hair) non è più sussurrata ma esplode nel corpo solo e tremante sul palco, nella voce rotta che risuona per l’intera navata.
È a questa versione essenzialmente cristologica che si rifaranno innumerevoli cantanti e concorrenti di talent-show da tutto il mondo, con vocalizzi e vibrati di cui ci dimentichiamo già a esibizione finita, perché il sacrificio è possibile una volta sola; dopo resta solo la stanca ripetizione di un rituale che già conosciamo, messo in scena così tante volte da svuotarsi di ogni significato.
Il modo di Cohen di stare sul palco è del tutto diverso, e sarebbe stato interessante ascoltare qualcuno degli operatori che hanno ripreso i suoi concerti, conoscere la sfida che inevitabilmente aveva loro posto. Laddove il documentario rivela alcune sciatterie registiche, con interviste fatte quasi “d’ufficio”, come se non ci fosse un vero interesse per i volti di fronte alla camera, il materiale più interessante è ancora una volta quello d’archivio, in cui Cohen appare quasi del tutto decentrato rispetto all’obiettivo. Le mosse minimali, il registro basso e trattenuto, l’attenzione che sempre concede ai musicisti sul palco, tutto fa pensare a un’esibizione da poeta più che da performer, come se davvero il canto fosse solo la continuazione della scrittura con altri mezzi (basta pensare che in tutte le interviste selezionate si definisce sempre e solo come “writer”).
Rispetto all’intensità quasi accecante di Buckley, Cohen ha la luce dimessa e irresistibile di un astro in caduta libera, che nel suo ultimo moto non può che risucchiare tutto lo spazio intorno. Non a caso, la malinconia del cantautore raggiunge la massima perfezione nell’ultimo album, You want it darker, rilasciato nel 2016, diciassette giorni prima di morire; davvero qui l’arrangiamento è un coro che accompagna la dipartita, e l’interpretazione ha la cupa essenzialità di una voce, di un corpo, sul punto di spegnersi.
E proprio You want it darker offre la risposta a che cosa davvero manca nel documentario, un’insoddisfazione che si prova indipendentemente dall’essere fan di Cohen o meno: parafrasando il titolo, è proprio di una certa oscurità che si sente la mancanza. Quell’oscurità che è stata poi la vera cifra dei testi e delle canzoni di Cohen, e che l’ha inevitabilmente portato a scontrarsi con le logiche di mercato.
È infatti inevitabile chiedersi, dopo la proiezione del film: se quello di Cohen è stato un percorso sofferto e imprevedibile, perché viene raccontato in un modo più che mai classico e prevedibile?
Se Hallelujah è stato, prima di tutto e soprattutto, un brano anti-commerciale, autarchico e libero, non avrebbe meritato una trasposizione cinematografica altrettanto anti-commerciale, autarchica e libera? Ha senso scegliere di raccontare un personaggio sovversivo, se poi la forma in cui viene rinchiuso di sovversivo non ha davvero niente?
Penso a Per Lucio, un film del 2021 di Pietro Marcello, forse l’anti-biopic per eccellenza: alle canzoni di Lucio Dalla, e a poche, selezionatissime testimonianze, si mescolano le immagini d’archivio dell’Italia del secondo Novecento, e soprattutto i primi piani delle migliaia di donne e uomini che migrarono dal sud verso il nord. Ripercorrere la discografia del cantautore diventa allora l’occasione per ripercorrere poeticamente la metamorfosi dell’Italia del tempo, la lenta scomparsa della civiltà contadina e l’avvento di un mondo nuovo, ancora vago ma in cui si aveva fiducia.
Penso a Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice, in cui l’io narrante si mette sulle tracce di Bobi Bazlen, uno dei fondatori di Adelphi, e sul perché “non hai mai scritto un romanzo”, pur avendone tutte le capacità. Le conversazioni con amici e conoscenti di Bazlen sono mere divagazioni, depistaggi continui, anziché rispondere alla domanda principale ne aprono altre, finché l’indagine di Del Giudice diventa un’indagine al cuore stesso della letteratura, un’interrogazione sincera sul perché scrivere. Affacciandosi su un vuoto, anziché cedere alla tentazione di colmarlo, si scopre un vuoto più grande.
Sono questi esempi estremi ma significativi della profonda creatività che concede il racconto documentario quando rinuncia alle aspettative di “verità”, e anziché confermare le aspettative del pubblico lo conduce su una strada che non sospettava. Invece l’unico viaggio possibile in Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song sembra essere quello lungo un sentiero già battuto, dove paradossalmente il cantautore rimane sullo sfondo, oscurato e inaccessibile, mentre ascoltiamo rivisitazioni di Hallelujah da parte di decine di interpreti – tutte più o meno buone, tutte più o meno commoventi. But you don’t really care for the music, do you?