Dispacci dal Festival di Berlino #3
“Non sono interessata a un racconto illustrativo: di ogni storia mi piace esplorare l’ambiguità, i punti d’ombra”.
Natalie Cubides-Brady siede al caffè del Cinema Cubix, mentre alle sue spalle file disordinate di spettatori attendono di poter entrare in sala. Un lucore spettrale si diffonde dalle grandi vetrate del cinema: è una di quelle giornate in cui il tempo a Berlino sembra non scorrere, le ore sono solo minime variazioni nel grigio compatto del cielo. Ci fosse la nebbia, un’inquadratura sugli edifici alti e specchianti che intravedo alla mia sinistra non stonerebbe nel cortometraggio che Natalie ha presentato in questa Berlinale. Quella mostrata nelle riprese in bianco e nero che compongono The Veiled City è infatti una Londra irriconoscibile e fantasmatica, avvolta nel “Grande Smog” che nel dicembre del 1952 infestò la città per quattro lunghi giorni. Anziché usare questi materiali d’archivio come meri documenti, però, la regista li ha usati per raccontare una storia di finzione: a guidarci è la voce fuori campo di una ragazza di cui non conosciamo le fattezze, che invia alla sorella una lettera da un futuro distopico.
“Mi interessa esplorare l’intersezione tra fiction e documentario, penso che combinandoli si possa davvero trovare una prospettiva più soggettiva e originale alle storie. Un documentario classico avrebbe affrontato quello stesso argomento in modo diverso, con l’intento di informare, a me invece interessava esplorare le coordinate emotive della situazione”.
Dare alle immagini un’altra possibilità: forse è questo che rende The Veiled City un lavoro tanto ipnotico, la capacità di immaginare un destino diverso per delle riprese che altrimenti resterebbero solo l’affascinante cronaca di un disastro. Disancorati dall’evento storico che li ha generati, riproposti in un’altra cornice narrativa, gli scorci di strade nebbiose, di volti e palazzi quasi del tutto svaniti, non sono più testimonianze del passato ma vivide da un futuro non ancora accaduto.
“L’idea è nata in modo del tutto imprevisto: stavo cercando su internet qualcosa che neanche ricordo, e mi sono imbattuta nelle fotografie del Grande Smog del 1952. Sapevo cos’era accaduto, ma non avevo mai visto le immagini: erano bellissime. Il fumo dava alla città un aspetto incredibilmente romantico e onirico. Dall’altro lato mi rendevo conto che si trattava anche di immagini orribili, perché quel fumo è stata la causa di morte per migliaia di persone. Trovavo interessante questo paradosso, questa miscela di bellezza e crudeltà, e volevo esplorarla”.
Questa esplorazione – la regista lo ammette con una sincerità rara – non sarebbe stata possibile senza la collaborazione con Ona Bartoli e Athena Varosio, rispettivamente la montatrice e la compositrice che hanno lavorato al cortometraggio. Una confessione tutt’altro che scontata, se è vero che nell’immaginario comune il film esiste ancora come l’opera assoluta di Uno, e non il frutto dell’intelligenza di molti. “Ho trascorso quasi un mese a cercare il materiale in diversi archivi del Regno Unito. Una volta avuto il materiale, e un’idea ancora approssimativa per la storia, io e la montatrice abbiamo iniziato a lavorarci: il primo tentativo è stato quello di collegare immagini e musica, per creare una sorta di viaggio emotivo. Solo in un secondo momento abbiamo pensato alla voce fuori campo. Più di tutto, volevo davvero che la storia emergesse dall’archivio, e non che fosse l’archivio a illustrare la storia”.
The Veiled City non è l’unico lavoro in cui Cubides-Brady ha sperimentato con i materiali d’archivio, confondendo le coordinate temporali, invertendo passato e futuro. Anche in un altro cortometraggio, Beyond The North Winds: A Post Nuclear Reverie, un altro prezioso ibrido di documentario e finzione, incentrato sulla dismissione di una centrale nucleare in Scozia, la regista faceva uso di pellicole 16mm, ma si trattava di pellicole che aveva girato lei stessa, fingendo che appartenessero a uno scienziato scomparso: anche qui, l’approccio documentario è solo un espediente per innescare nuove possibilità narrative.
“Sento che ciò che potrebbe collegare tutti i miei lavori, oltre a un certo interesse a sperimentare tra realtà e finzione, è l’attenzione al paesaggio. Potrebbe suonare come un cliché, ma nei miei film il paesaggio è un vero e proprio personaggio. Credo sia per questo che ho trovato così interessante lo smog nelle immagini di Londra: era una specie di coscienza, un organismo onnipresente in grado di decidere chi vive e chi muore, e dal quale non si poteva sfuggire. Anche in Beyond The North Winds il luogo ha giocato un ruolo cruciale: inizialmente ero interessata ai reattori, e alle cicatrici che questi tipi di impianti lasciano nei luoghi, ma quando sono andata a vedere il posto per la prima volta ne sono rimasta affascinata. Era una terra diversa da quella che avevo immaginato, remota, non folcloristica, soprattutto sospesa nel tempo. Volevo che il film fosse una risposta a queste sensazioni”.
È curioso come questa profonda attenzione ai luoghi conduca inevitabilmente a un racconto più libero, dove sono le immagini a dettare la struttura del film. Anche After the silence, realizzato nel 2018, è soprattutto il racconto di un luogo: Cubides-Brady, nata e cresciuta a Londra ma di origini colombiane, ci mostra in questo caso i corpi dei desaparecidos restituiti dal fiume Magdalena, e i rituali funebri che riservano loro gli abitanti della cittadina di Puerto Barrio. Pur trattandosi di corpi non identificati, dare loro degna sepoltura, strapparli dal tempo informe della scomparsa e riportarli a un ciclo naturale di nascita e morte, rappresentava per i cittadini e per i parenti delle vittime una risposta alla violenza sistemica, nonché la possibilità di piangere, almeno in parte, i propri cari.
“Quando ho girato il film, nel 2017, erano in corso molte riesumazioni: ho trovato affascinante che il paesaggio, proprio come il fiume, stesse rivelando il segreto di dove fossero stati abbandonati i corpi delle persone scomparse. Quando ho seguito una squadra governativa impegnata nelle ricerche, in aperta campagna, il mio intento era riuscire a cogliere con le immagini proprio questo processo di scoperta, questa conoscenza del paesaggio che veniva pian piano disvelata”.
Prima di frequentare la National Television School, Natalie ha sperimentato con videoinstallazioni meno narrative, più attinenti al mondo dell’arte contemporanea. Una strada che ha abbandonato presto, ma le ha permesso di sviluppare un approccio più libero alle immagini – “Forse è per questo che mi trovo così a mio agio con l’ambiguità”. Non mi stupisco quando tra i suoi riferimenti, soprattutto per la realizzazione di The Veiled City, cita Chris Marker: La Jetée ha aperto la strada a un racconto di fantascienza diverso, più filosofico, che non incide per le trame pirotecniche o i combattimenti interstellari, ma per la poesia con cui sa reinventare quel che già conosciamo.
Sono solo nostre le voci che ora risuonano nell’atrio del Cinema Cubix. Gli spettatori si sono ormai dispersi dentro la sala, lasciandosi indietro solo l’eco delle loro conversazioni; anche Natalie Cubides-Brady mi saluta e si avvia verso la sala. Forse è per via di questi affondi sulla fantascienza o sui collassi spazio-temporali, ma non appena resto sola, in questo speciale limbo che si apre tra la buia sala delle proiezioni e la città oltre le vetrate, mi domando se noi spettatrici e spettatori siamo poi così diversi dai Tecnici di cui racconta Asimov nel romanzo La fine dell’eternità, addestrati a viaggiare nel tempo. Abbiamo conoscenze più modeste, non indossiamo tute speciali, eppure anche noi viaggiamo instancabili tra i frammenti di eternità che promettono le sale cinematografiche, e instancabili cerchiamo quello in cui ci sentiremo a casa.