La canoa traballa di nuovo quando scende Jani che è grande, parla forte e mi tende una mano troppo piccola per sembrare sua. Mi afferra per tirarmi verso la terra ferma, che ferma non è perché scivola di fango e pioggia. Il mio stivale di gomma affonda e lascia un’impronta fissa. Fatico ed alzare il passo per andare avanti. Questa terra rossa sembra volermi risucchiare. Invece non le interessa di me: alzo lo sguardo, è infinita.
In canoa ci stavamo in sei, tutte donne. Abbiamo attraversato il Rio Putumayo osservando l’altra sponda, che è già Ecuador. Con noi, Viviana Martinez dell’organizzazione colombiana che ha organizzato l’incontro: «Un laboratorio para mujeres», ci aveva spiegato «perché il livello di violenza nella Zona de Reserva Campesina è diventato preoccupante». Sulla riva rossa e liquefatta, il fiume alle spalle, la foresta davanti, quell’odore di vegetazione umida e verdissima avvolge e stordisce. Ci si mette un po’ a fare entrare l’aria nei polmoni. Putumayo immenso dove tutto sembra pesante, sembra schiacciare. Di una materia diversa, con un peso specifico diverso, arriva Celeste, che sembra più leggera di quello che ho intorno.
Celeste è in minigonna, ha le infradito rosa ed avanza verso di noi con passo danzereccio. Quando siamo vicine scivola, ma è agile, non lo dà a vedere. La sua voce roca frulla di saluti, ha l’ombretto verde e il lucidalabbra.
Ci accompagna verso la sede dell’associazione “Avispa” , che vuol dire api, e che riunisce le tante anime femminili ospitate nel nostro raduno: cocaleras, raccoglitrici di coca, piccole allevatrici, donne di casa: sono in prima linea per difendere le proprie terre dai veleni dell’industria petrolifera e dalle pallottole della guerra civile colombiana. Alcune hanno subito violenza.