La riscrittura dei miti e delle tragedie classiche dal punto di vista delle figure femminili è una delle mode letterarie degli ultimi anni: da Elena a Cassandra, da Circe a Galatea, le librerie di tutto il mondo sono ormai affollate da regine sconfitte, amanti tradite, schiave che prendono parola con un senso di rivalsa e lesa dignità. Quello che però accomuna gran parte di queste riscritture è una certa tendenza alla semplificazione: le protagoniste sono quasi sempre donne dai sentimenti nobili, universalmente buone, magnifiche vittime che denunciano le violenze della storia. Ma può davvero essere rivoluzionaria una letteratura che si limita a sostituire un punto di vista con un altro, una voce con un’altra, senza davvero portare con sé una nuova rappresentazione del mondo?
Se c’è un’autrice che ha saputo reinterpretare i classici con audacia e coraggio, è senz’altro Marguerite Yourcenar: pubblicata nel 1936, Fuochi (Feux) è una visionaria raccolta di racconti in cui, a un diario notturno e concitato, si alternano nove ritratti di figure maschili e femminili, attinte, con la sola eccezione di Maria Maddalena, dal mondo greco-romano. Ogni personaggio è colto in un momento di trasformazione che ne mette radicalmente in discussione l’identità, e la scrittura, lirica e incendiaria fino a sfaldare la sintassi, cerca di rendere conto di questa trasformazione. “Transfuga dal corpo dei maschi”, Achille viene descritto mentre si trova alla corte di Sciro, travestito da fanciulla: invece di essere un semplice espediente per scongiurare la partecipazione alla guerra di Troia, il travestimento diviene per Achille “una sublime avventura; sotto la protezione di un corsetto o di una gonna si trattava di entrare in quel vasto e inesplorato continente delle Donne dove l’uomo fino a quel momento non era penetrato se non come vincitore”. Antigone ci viene invece raccontata dopo la sua morte, non più donna né umana, piuttosto come una specie di fosforescenza che si sparge sulla città di Tebe – “la sua devozione per Edipo rifulge su milioni di ciechi; la sua passione per il fratello putrefatto rianima oltre un miliardo di morti”.
Ma è soprattutto in Fedone o della vertigine che Yourcenar mette in campo una scrittura immaginifica in grado di polverizzare non solo i confini tra i generi, ma anche tra umano e non umano. Così il filosofo greco descrive le danze rituali che hanno deciso il suo destino: “Mi palpitavano i capelli; i miei cigli mi nascondevano gli occhi prigionieri per sempre delle mie palpebre; il mio sangue scorreva in mille giri come quei fiumi sotterranei che sembrano neri agli occhi notturni delle ombre”. E ancora, descrivendo il culmine del rituale: “Le piante dei piedi restavano per me l’unico punto di contatto con quella terra fatale che un giorno mi avrebbe ripreso. Ebbro di vita, titubante di speranza, mi aggrappavo per non cadere alle spalle lisce e dolci di compagni di gioco che passavano lì per caso: cadevamo insieme; ed è questa mischia che noi chiamavamo amore.”
Il tema della metamorfosi, e quello di un’identità ambigua e in continua trasformazione, non rappresentano però un’esclusiva di Fuochi, e anzi attraversano, in maniera più o meno evidente, tutte le opere di Yourcenar. Basti pensare al folgorante romanzo d’esordio Alexis o della lotta vana, dove “la lotta vana” a cui si allude nel titolo è proprio quella del protagonista contro la propria inclinazione omosessuale: scrivendo una lunga lettera di addio alla moglie, Alexis può finalmente lasciarsi alle spalle le proprie inibizioni e quel “sonnambulismo del desiderio” con cui ha a lungo convissuto. E se L’opera al nero ci racconta di Zenone, medico e alchimista che rifiuta qualsiasi rapporto sessuale aspirando a una specie di ascetismo, a una condizione davvero nuova, neutrale e sublime, che dire delle Novelle orientali, dove sfuma qualsiasi differenza tra reale e fantastico, “e la maschera, a lungo andare, diventa il volto”? Tra i personaggi delle Novelle, ispirati alle tradizioni dell’India, del Giappone e dei Balcani, uno dei più amabili è senz’altro quello di Kali, che ha abdicato al trono nel cielo di Indra poiché “il corpo a cui la sua testa divina era unita aveva nostalgia dei quartieri malfamati, delle carezze proibite”. Un corpo umano e corrotto dai desideri, con una testa divina: è forse questa l’immagine che meglio descrive Marguerite Yourcenar. Una scrittrice che dosa mirabilmente erudizione e immaginazione. Un’alchimista che lascia le proprie creature vivere e bruciare sulla carta, senza il timore di correggerle.
Con quasi cento anni di anticipo rispetto ai dibattiti contemporanei, Yourcenar ci insegna che il punto non è tanto, o comunque non solo, chi racconta, ma come racconta.
Rinunciando a facili moralismi, preservando la tridimensionalità dei suoi personaggi, Yourcenar apre davvero spazi inesplorati, e rivendica quello che è da sempre il “fuoco” salvifico della letteratura: la possibilità di diventare altro da sé.