Sono cresciuta in un paese della provincia di Milano, un paesino di 4mila abitanti, dove con le mie sorelle e mio padre eravamo gli unici “stranieri”. Ricordo con estrema lucidità la vergogna e l’imbarazzo che tuttora mi accompagna alla lettura ad alta voce del mio cognome, sempre sbagliato sempre a metà. A volte “Sit” a volte “Aboha” a volte “va be’ tu, troppo difficile”. Nei 25 anni di vita che mi accompagnano solo una volta mi è capitato che mi venisse chiesto come si legge il mio cognome o come si pronuncia il mio nome.
Le vite delle identità ibride sono in lotta costante per il riconoscimento dei propri nomi e cognomi, forti come carte di identità.
La sensazione di inadeguatezza legata alla diversità del mio cognome spesso veniva – e viene tutt’ora – accompagnata dalla difficoltà di comprendere che cosa voglia dire essere, in un paese come l’Italia, palestinese. Nel corso degli anni ho sempre cercato di costruire legami che mi facessero sentire al sicuro e riconosciuta. Il processo di riconoscimento, per chi non è considerato italiano è un bisogno necessario e urgente. Quando esco dalla mia comfort zone tale riconoscimento viene automaticamente a mancare. “Ah ma di dove sei?” “Palestina” “Ah sì, io sono stato in Israele tante volte”. Oppure, alla risposta “Palestina” sguardi e visi con grandi interrogativi mi osservano e io, leggo nello smarrimento degli occhi di chi mi guarda, la completa inconsapevolezza del significato e dei significanti della parola “Palestina”. Le strade che si aprono di fronte a me davanti alla parola “Palestina” dipendono spesso dai momenti storici in atto.
“Geografie dell’essere” di Laila Sit Aboha fa parte di Geografie, il secondo numero del trimestrale cartaceo di geopoetica “Q Code”, edito da Phlegraea: