Partiamo dalla definizione, anzi ne scegliamo una. “L’identità di ciascunae ciascuno, nelle società oramai estremamente complesse, si trova all’incrocio di molti piani diversi: quello del genere, della religione, dell’etnia, del luogo di nascita, del reddito, della lingua o lingue conosciute, delle disabilità, delle nazionalità,dell’orientamento sessuale, della cultura di appartenenza o di arrivo o di altri ancora.
Tutte le coordinate culturali sono livelli di costruzione della propria identità nella quale agiscono poteri e forze politiche diverse, che si concentrano sull’unico luogo comune a tutte: il corpo, il quale a sua volta, differente da tutti gli altri, risponde a quelle sollecitazioni in maniera diversa”. (da Perché il femminismo serve anche agli uomini di Lorenzo Gasparrini, Eris 2020)
Lorenzo Gasparrini, filosofo di estetica, attivista femminista e scrittore, definisce in maniera semplice l’intersezionalità (per provocare: ecco che anche gli uomini si occupano di questioni di genere e sono femministi!). Il concetto compare per la prima volta in un saggio scritto da Angela Davis (militante del partito comunista e delle Black Panthers,) durante la sua detenzione in carcere. Accusata di omicidio, cospirazione e rapimento, come complice del sequestro e poi omicidio di un giudice firmato dalle Black Panthers, dopo due mesi di clandestinità, venne catturata a New York e, alla fine del processo, assolta con formula piena. Mentre è in carcere in attesa di giudizio, Angela Davis approfondisce le tematiche dello schiavismo e del matriarcato, usando come lente di ingrandimento il punto di vista della donna.
Nel saggio del 1971 per la prima volta mette in relazione due tipi diversi di oppressione, quella nei confronti della comunità afroamericana, quindi il razzismo, e quella nei confronti delle donne, quindi il sessismo, per individuare nello sfruttamento attuato dal capitalismo il nemico da sconfiggere. L’unico modo per farlo è analizzare quali intersezioni corrono fra questi due tipi di oppressione, in che modo agiscono e sottomettono i soggetti, o comunità intere, e quindi elaborare una serie di pratiche, soprattutto metterle in condivisione, per lavorare su più livelli ed essere davvero efficaci.
Ritornando alla storia del termine, il primato dell’utilizzo ufficiale va a Kimberle Crenshaw. Nel 1989 l’attivista e giurista aveva sviluppato il concetto di intersezionalità in seguito a dei processi in cui difendeva delle donne lavoratrici nere, doppiamente oppresse perché donne e perché nere. Per questo, Crenshaw scrisse un articolo in cui analizzava come le diverse “intersezioni” sociali dei singoli individui contribuiscano a un sistema più ampio di oppressioni; analizzarle e contrastarle separatamente è già di per sé una sconfitta. Nel suo articolo arrivava a criticare sia il femminismo sia le politiche antirazziste, proprio perché spesso incapaci di considerare lo specifico contesto dell’essere donne nere, e quindi delle discriminazioni conseguenti. In tribunale, per Crenshaw, era difficile far riconoscere le singole oppressioni, perché spesso il punto di vista da cui partiva la corte, e la giuria, si basava su casi di donne bianche o uomini neri. Il punto di vista delle donne nere rimaneva sempre al margine.
Arriviamo ai nostri giorni. Nel 2019 tre docenti universitarie e pensatrici femministe – Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser – pubblicano: Femminismo per il 99%, un manifesto. 11 tesi per liberarci dal patriarcato; l’ottava è “Il capitalismo è nato dalla violenza razzista e coloniale. Il femminismo per il 99% è antirazzista e antimperialista” e riguarda il dilagante razzismo degli ultimi venti anni in Europa di pari passo al crescente consenso verso partiti populisti etno-nazionalisti, in corrispondenza con l’aumento delle violenze nei confronti della comunità nera negli Stati Uniti e fra gli indigeni in Brasile.
Spesso anche il femminismo del secolo scorso ha fatto propri alcuni concetti razzisti e ghettizzanti, come il movimento delle suffragette, o ancora oggi le femministe che lottano contro l’islam, o quel femminismo che non vuole connettere il concetto di genere con concetto di classe. In questo contesto si inserisce l’intersezionalità: oggi nella nostra società l’oppressione assume forme diverse, bisogna rendere visibili e politicamente chiari i collegamenti fra queste oppressioni per costruire lotta nelle diversità e cambiare la società.
“La realtà è che, sebbene tutte noi soffriamo forme di oppressione misogina nella società capitalista, la nostra oppressione assume forme diverse. I collegamenti fra queste forme di oppressione non sono sempre immediatamente visibili e devono essere rivelati politicamente, ossia attraverso sforzi consapevoli di costruzione di solidarietà. Solo in questo modo, dando battaglia all’interno delle diversità e attraverso di questa, possiamo raggiungere il potere combinato di cui abbiamo bisogno se speriamo di trasformare la società”. (da Femminismo per il 99%, un manifesto, Laterza 2019, pag. 49)
Pensiamo ora alla realtà di Non Una di Meno, movimento globale nato in Argentina nel 2015, che si è diffuso in diversi continenti. Anche in Italia la marea fucsia ha avuto, e ha ancora, una grande capacità di inclusione nelle piazze, perché si occupa di tematiche di genere e di come la violenza del sistema patriarcale si abbatte sugli individui e come contrastarla.
“Riteniamo decisivo analizzare le modalità attraverso cui la violenza patriarcale si combina con forme di dominio esercitate su altre differenze oltre quella sessuale e di genere, quali l’origine geografica, la cultura, la provenienza sociale, l’abilità o la disabilità, l’età.” (da Abbiamo un Piano di Non Una di Meno Milano, nonunadimenomilanoblog.wordpress.com) Non Una di Meno Milano in questi ultimi anni ha organizzato presidi, manifestazioni proprio per mettere in luce questa violenza sistemica, che per alcuni soggetti si attua su più livelli. Ricordiamo il presidio in piazza Missori, a Milano “I panni sporchi si lavano in piazza”, per denunciare l’aumento delle violenze all’interno delle mura domestiche durante il lockdown e l’incremento del lavoro di cura per tutte quelle donne madri, a cui è stato richiesto implicitamente dalle istituzioni di dover far fronte anche allo smartworking, con un lavoro di cura non ancora riconosciuto, quindi non retribuito oppure, come nel caso delle colf o delle badanti, sottopagato perché donne ‘razzia- lizzate’. Una duplice violenza e oppressione, sia di genere che razza, e di classe.
In conclusione: come può il concetto di intersezionalità diventare tangibile nella vita quotidiana? Come possiamo tutte e tutti insieme portare a galla le varie discriminazioni che subiamo, a casa, sul luogo di la- voro, in ambiti sociali, legate al colore della propria pelle, alle condizioni economiche, di genere o di orientamento sessuale a cui si appartiene, e interconnetterle fra loro? Come attuare un reale cambiamento? La sfida è compito di ciascun di noi: abbiamo il coraggio di aprire gli occhi e lottare?