Torino, 26 giugno 1983, sera. Il procuratore Bruno Caccia sta portando il suo cane a fare una passeggiata vicino a casa, senza scorta. Vengono sparati quattordici colpi di pistola da una macchina, altri tre a distanza ravvicinata. Caccia, 66 anni, viene ucciso.
Le prime indagini si concentrano sulla matrice terroristica dell’omicidio, ma ben presto ci si concentra su quella della criminalità organizzata, in particolare di stampo ‘ndranghetista. Bruno Caccia rimane l’unico magistrato ucciso dalle mafie nel nord Italia, in un’epoca in cui si faceva molta fatica a parlare di criminalità organizzata nei contesti settentrionali.
Oggi c’è un bene confiscato che porta il suo nome: Cascina Caccia, bene confiscato alla ‘ndrangheta sui colli torinesi, a San Sebastiano da Po. Dalla memoria del procuratore è nata un’esperienza di riutilizzo sociale che va avanti da diversi anni, dopo varie difficoltà: ci sono voluti più di vent’anni per fare in modo che i muri della cascina confiscata alla ‘ndrangheta tornassero a riempirsi di voci, persone, progetti.
Il bene, confiscato nel 1996, è stato lasciato dalla famiglia mafiosa dei Belfiore solo nel 2007, dopo anni in cui la famiglia ‘ndranghetista ha cercato in tutti i modi di ostacolarne il riutilizzo. Oggi è un bene aperto al pubblico, animato da una comunità di residenti che lo fanno vivere.
Una storia, quella di Bruno Caccia e della resistenza alla ‘ndrangheta nel Nord Italia, su cui si basa il graphic novel di Sofia Nardacchione e Enrico Natoli pubblicato sul primo numero del nostro semestrale cartaceo a tema “Muri”: lo ripubblichiamo oggi in occasione del quarantesimo anniversario della morte del procuratore torinese.