Rimosso collettivo. Eppure, la morte fa parte della vita, dice un dottore a un’amica cui viene comunicato un cancro, e che oggi è fortunatamente con noi.
Morire è un fatto collettivo, tutti moriamo, e tremendamente individuale, ognuno di noi scompare, cessa di esistere, sparisce. Rimane il ricordo, rimangono le parole, le azioni, gli aneddoti. E rimane il morto nella testa e nei cuori di chi lo ha amato. Quando siamo vivi, direbbe Monsieur de Lapalisse, non siamo morti. Ma non è vero nemmeno questo, perché la mortalità – e di converso il fascino dell’immortalità che diviene tratto della divinità – viene continuamente scacciata pur essendo una condizione che dovremo affrontare tutti.
Ecco perché quando ci si trova a stretto contatto con chi si ammala, di tumore o altre malattie che mettono quella parola in circolo, o quando addirittura si passa il proprio tempo con chi sa che dovrà morire in pochi mesi, senza conoscere la data, subentrano angoscia e imbarazzo. Angoscia riflessa se sei l’amico, o angoscia abissale se sei malato. E imbarazzo in chi circonda il morituro, che peraltro è ancora vivo, perché non si sa più di cosa parlare, che cosa dire. Il che non è vero.
Un giorno un amico fraterno mi annuncia il suo cancro, uno dei peggiori nella classifica delle possibilità di cura e sopravvivenza. Mi accorgo che non ho le parole adatte; anzi, penso di non averne. Quali sono queste parole adatte a una circostanza che sfuggiamo anche solo con la coda dei nostri pensieri? Ci pensa lui, l’amico, a dirmelo. Si arrabbia e mi strapazza al telefono. Sei sparito, non mi chiami, non mi parli. Io abbozzo con trasparenza che la notizia di quel cancro mi aveva fatto riflettere su cosa potesse importare, a lui, un malato grave, dei mie racconti, delle mie preoccupazioni quotidiane.
Tutto così superfluo, e forse anche offensivo. O no?
Guarda, dice l’amico, che io sono vivo.
E sono contento se mi racconti qualsiasi cosa, che significa vivere, significa non essere estromessi, significa riuscire ad affrontare la malattia senza pensarci in continuazione. Il mio amico, si chiamava Matteo, è peggiorato nei mesi; prima gli hanno interrotto i protocolli di cura. Poi gli hanno dato dai tre ai sei mesi, comunicati male, mi disse. Abbiamo passato tempo insieme con quella consapevolezza. Abbiamo parlato della morte, in realtà io ho ascoltato perché come fai a dibattere di qualche cosa che non spetterà a te, con chi sa di dover andare?
Nelle settimane successive alla sua morte questo enorme rimosso è tornato a interrogarmi: un altro amico comune, Manuel, un po’ spagnolo, un po’ argentino e un po’ italiano, che conoscerete fra poco, è venuto a trovarmi e lì ho scoperto che nel 2020 si era ammalato. Cancro a un rene. Guaribile. E così questo buco nero, questo sparire, questo nulla che ci assilla poteva diventare un tema di conversazione, con lui che è un uomo di teatro. Scrive, recita, canta, inventa.
In fondo, tutti i piaceri che assaporiamo sono un inno alla vita. Il cibo, il sesso, sono risposte al grande rimosso che ci aspetta: non sappiamo dove, non sappiamo come, non sappiamo quando. Paradossalmente sappiamo il perché, nel senso che abbiamo contezza di essere finiti, ma ci sentiamo immortali, complice anche una società che fatica a prendere sul serio questo fatto inequivocabile. Anzi. Questa società occidentale, nelle sue parole d’ordine dell’apparenza, ci vuole sani, forti, belli, magri, felici. E spesso relega il povero, l’infelice, il malato dentro una zona di abbandono.
E allora andiamo da Manuel, nel suo ufficio come lo chiama lui, una domenica. È un parco di Milano con un chiosco carino, i tavolini sotto gli alberi, c’è il sole ed è ottobre. Ha una giacca verde menta. Gli occhiali a specchio.